L’osteoartrite è stata per lungo tempo considerata una patologia degenerativa che colpisce isolatamente la cartilagine articolare. Si tratta di una delle condizioni cliniche più diffuse al mondo tra quelle in grado di causare dolore osteoarticolare e di conseguenza disabilità. Ne soffre il 7% della popolazione mondiale. Il Global Burden of Disease (GBD) 2019 study ha rilevato che il numero di individui affetti da osteoartrite è cresciuto globalmente del 48% tra il 1990 e il 2019. Fattori legati allo stile di vita e all’alimentazione possono aver contribuito ad innescare questo trend.
Di fatto numerose ricerche hanno documentato l’esistenza di una correlazione tra sindrome plurimetabolica e osteoartrite. La sindrome plurimetabolica è una delle più importanti sfide in ambito sanitario e di salute pubblica ed è direttamente correlata al modello di vita sedentario, all’eccesso calorico, all’aumento ponderale (dal sovrappeso all’obesità). Aspetti costantemente presenti nella sindrome plurimetabolica sono l’insulino-resistenza, l’obesità centrale con aumento della circonferenza della vita, la patologia vascolare e la dislipidemia (ovverosia l’aumento del colesterolo cattivo o LDL e dei trigliceridi a livello ematico). Tutte queste condizioni sono legate ad un’infiammazione sistemica di basso grado a cui si da il nome di “meta-inflammation“.
Metainfiammazione e degenerazione articolare
Per definizione la meta-infiammazione è uno stato di infiammazione cronica mediata dai macrofagi tissutali presenti a livello del fegato, dei muscoli, del grasso viscerale, del pancreas, del colon e persino del cervello. Sono proprio i macrofagi tissutali a produrre citochine pro-infiammatorie come il tumor necrosis factor (TNF)-α, le metalloproteinasi della matrice (matrix metalloproteinases o MMPs), e le interleuchine IL-1, IL-6, IL-2, IL-7, IL-15 e IL-21. Si è dimostrato che la meta-infiammazione può portare ad alterazioni dell’osso subcondrale.
Artrosi: il limite delle terapie in atto
Le terapie hanno lo scopo di rallentare la progressione della malattia e prevedono la somministrazione di principi attivi ad azione anti-infiammatoria e anti-dolorifica che alleviano solo temporaneamente i sintomi. Molti di questi farmaci alterano l’integrità della barriera intestinale portando ad iper-permeabilità e infiammazione sistemica. L’assunzione per tempi prolungati di corticosteroidi aumenta la probabilità di sviluppare un’ulcera peptica, un’insufficienza renale e l’infarto acuto del miocardio.
Il microbiota intestinale o meglio l’organo microbiota
Il nostro intestino alberga oltre 100 trilioni di microrganismi. La simbiosi tra noi e i nostri batteri intestinali si è perfezionata nel corso dell’evoluzione e oggi sono proprio i batteri a regolare molte funzioni intestinali. Hanno un ruolo fondamentale nel metabolismo di alimenti e farmaci, nel mantenimento dell’integrità della barriera intestinale, nella modulazione della risposta immunitaria, nella protezione contro i patogeni. Per questa ragione oggi si parla di microbiota intestinale come di un nuovo organo, l'”organo microbiota” per l’appunto. Le tecniche di Next Generation Sequencing hanno consentito di studiare la composizione del consorzio microbico. Attraverso l’estrazione del DNA microbico a partire dal materiale fecale si può arrivare a definire non solo i generi ma anche le specie di appartenenza. Grazie a questo approccio si è giunti alla definizione di un microbiota eubiotico di riferimento. Questo è formato per il 95% da batteri appartenenti ai due principali Phylum, quello dei Firmicutes (Lactobacillus, Bacillus, Clostridium, Enterococcus, Staphylococcus, Ruminicoccus, Faecalibacterium, Roseburia, Dialister e Sphingobacterium) e quello dei Bacteroidetes (Bacteroides e Prevotella), seguiti dagli Actinobacteria (Corynebacterium, Bifidobacterium e Atopobium), dai Proteobacteria (Escherichia, Shigella, Desulfovibrio, Bilophila e Helicobacter), dai Fusobacteria (Fusobacterium) e dai Verrucomicrobia (Akkermansia).
Alcune specie batteriche (vedi Bacteroides, Roseburia, Bifidobacterium, Fecalibacterium e Enterobacteria) sono in grado di fermentare le fibre alimentari portando alla prodizione di acidi grassi a catena corta (Short Chain Fatty Acids o SCFA). Tra questi vanno citati il butirrato, il proprionato e l’acetato che oltre a fornire calorie all’ospite assolvono anche ad altre funzioni. Il butirrato, ad esempio, è capace di prevenire l’accumulo di sostanze potenzialmente tossiche come il D-lattato.
I Bacteroides sono in grado di sintetizzare una serie di enzimi fondamentali nel metabolismo dei carboidrati. Questi sono la glicosiltrasferasi, la glucoside idrolasi (detta anche glicosidasi o glicosil idrolasi) e la polisaccaride liasi.
La fermentazione dei carboidrati operata dai Bacteroides porta alla sintesi di ossalati. Oxalobacter formigens, alcuni bifidobatteri e lattobacilli sono invece in grado di degradare gli ossalati a livello del tratto intestinale e grazie a questa loro specifica azione riducono il rischio di sviluppare calcoli renali.
Disbiosi e osteoartrite
La disbiosi si associa ad alterata permeabilità intestinale (Leaky Gut Syndrome), all’infiammazione di basso grado, al rilascio di lipopolisaccaride (LPS) da parte dei batteri gram negativi, all’endotossiemia metabolica conseguente al legame tra LPS e Toll-like receptor 4 (TLR-4), alla meta infiammazione e alla sindrome plurimetabolica. Questo corteo di fenomeni sarebbe in parte responsabile anche della comparsa dell’osteoartrite. I medici con questo tipo di visione curano le articolazioni curando allo stesso tempo il microbiota intestinale. Le terapie per un microbiota malato (leggasi disbiotico) contemplano alimentazione, stile di vita e integrazione.
Curare l’atrosi con i probiotici
In un modello murino di osteoartrosi è stato possibile dimostrare che Lactobacillus casei, quando cosomministrato assieme a collagene di tipo II e a glicosammina, può ridurre significativamente il dolore, la condropatia e l’infiltrazione linfocitaria. Si osserva allo stesso tempo una riduzione dei fattori pro-infiammatori (IL-1β, IL-2, IL-6, IL-12, IL-17, TNF-α, IFN-δ e MMPs 1, 3 e 13,) mentre aumentano le interleuchine 4 e 10 ad azione anti-infiammatoria. Per quanto riguarda la ricerca sulla nostra specie è stato dimostrato che le donne che si allenano con regolarità (almeno 3 ore a settimana) hanno più alti livelli di Faecalibacterium prausnitzii, Roseburia hominis e Akkermansia muciniphila rispetto ai controlli sedentari. Si tratta di una scoperta interessante dal momento che F. prausnitzii e R. hominis sono capaci di produrre butirrato mentre A. muciniphila è associata ad un basso peso corporeo e al potenziamento della barriera intestinale. Si tratta di aspetti in grado di contrastare l’infiammazione sistemica e di conseguenza di ostacolare l’insorgenza dell’artrosi.
In conclusione, non si può pensare di curare l’artrosi con i cortisonici… l’artrosi si cura con un approccio sistemico che tenga conto anche dello stato di salute del nostro organo microbiota.
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