Dieta e microbiota

La nascita del microbiota intestinale

Nasciamo da una mamma e da un papà ereditando una combinazione varia dei loro geni. L’informazione racchiusa nel DNA stabilisce il colore della nostra pelle, dei capelli, degli occhi, gioca un grande ruolo nel determinare quelli che saranno la nostra statura e il nostro peso, il tono della nostra voce o addirittura il nostro carattere. La genetica conta molto ma dopo aver portato a termine la mappatura del genoma umano gli scienziati si sono resi conto che c’era ancora molto da capire. Oggi si parla di epigenetica intendendo fare riferimento ad una serie di eventi che portano ad accendere o a spengere i geni che abbiamo ereditato dai nostri genitori. Questo fenomeno, che è in atto già durante la vita fetale e che rimane attivo durante tutta la nostra esistenza, viene indicato come modulazione dell’espressione genica.

L’epigenetica è necessaria nella misura in cui, venendo al mondo con un ben determinato assetto genetico, abbiamo bisogno di adattarci all’ambiente che troviamo. In genetica l’ambiente è l’insieme di tutti i fattori esterni ad un organismo. Non è, dunque, solo il luogo fisico nel quale viviamo, è anche la dieta che consumiamo. Una porzione dell’ambiente esterno si trova paradossalmente all’interno del nostro corpo ed è tutto ciò che passa attraverso l’apparato gastrointestinale, non solo cibo ma anche batteri.

Mamma e papà non contribuiscono in misura uguale alla “progettazione” del nuovo nato. Dalla mamma, infatti, ereditiamo non solo la metà del nostro patrimonio genetico ma anche i mitocondri (contenuti nell’ovocita e non nella testa dello spermatozoo) e i microrganismi che danno avvio alla formazione del nostro microbiota intestinale.

L’intestino umano è considerato sterile durante la vita in utero. La colonizzazione microbica avviene primariamente al momento della nascita a seguito del passaggio lungo il canale del parto quando il neonato entra in contatto con le secrezioni vaginali e rettali materne. Per questo la modalità con la quale si compie la nascita (parto vaginale oppure cesareo) ha un profondo impatto sulla composizione del microbiota nel nuovo nato. I bambini nati da parto cesareo hanno un più alto rischio di sviluppare obesità nel corso della loro infanzia.

Il parto cesareo è stato associato ad una sovraccrescita di Clostridium difficile e di Bacteroides. L’età gestazionale dei neonati (pretermine, a termine e post-termine) correla significativamente con la composizione del microbiota intestinale. L’intestino dei prematuri presenta più alti livelli di Clostridium difficile rispetto ai nati a termine. Dati ottenuti dall’analisi dei campioni fecali documentano che la colonizzazione da parte di Bifidobacterium e Lactobacillus risulta essere ritardata nei prematuri mentre aumenta la proporzione dei batteri potenzialmente patogeni (in special modo Escherichia coli).

Durante l’infanzia la dieta diviene il principale fattore in grado di determinare la composizione del microbiota intestinale. È stato dimostrato che nei bambini allattati al seno prevalgono i bifidobatteri. Con lo svezzamento, a seguito dell’introduzione del cibo solido, la composizione del microbiota intestinale cambia in maniera significativa arrivando a somigliare a quella di un individuo adulto. Già a partire dai 3-4 anni di età il nostro consorzio microbico è dominato da due Phylum che rappresentano assieme il 95% di tutti i batteri residenti. Si tratta dei Firmicutes (Gram + e Gram -) che hanno un’azione pro-infiammatoria e obesigena e dei Bacteroidetes (Gram -) che al contrario ci proteggono da infiammazione e obesità.

Il restante 5% della popolazione microbica intestinale è formato da batteri appartenenti ai Phylum:

  • Proteobacteria, Gram -;
  • Verrucomicrobia, Gram -;
  • Tenericutes, Gram -;
  • Actinobacteria, Gram +;
  • Fusobacteria, Gram -;
  • e Archea con un unico esemplare, Metanobrevibacter smithii.

Ruolo del microbiota intestinale

Oramai da qualche tempo, quando pensiamo al microbiota intestinale, l’immagine che ci viene in mente è quella di un organo con la sua complessità anatomica e funzionale. Così come quando ci si pone di fronte ad un rene o ad un pancreas bisogna disporre di strumenti diagnostici e terapeutici, gli stessi strumenti sono richiesti di fronte all’organo microbiota. Al pari degli altri organi anche il microbiota può ammalarsi. La disbiosi è un’alterazione quali/quantitativa del consorzio microbico e si associa a sintomi locali e sistemici. Si diagnostica attraverso il test del microbiota intestinale e si cura attraverso la dieta e la prescrizione di probiotici e di prebiotici.

L’importanza dell’organo microbiota risiede nella relazione simbiotica che abbiamo stabilito con i nostri batteri intestinali. In cambio di un ambiente di crescita ottimale loro si occupano di:

  • manutenere la barriera intestinale (produzione di muco, potenziamento delle giunzioni serrate);
  • sostenere la funzionalità del Sistema Immunitario contrastando l’insorgenza di malattie allergiche o autoimmuni;
  • sintetizzare vitamine (vedi la vitamina K e le vitamine del gruppo B);
  • convertire le fibre alimentari in acidi grassi a catena corta (Short Chain Fatty Acids, SCFAs) (l’attività metabolica/trofica del microbiota intestinale ha un ruolo fondamentale nel controllo del peso corporeo);
  • metabolizzare i farmaci;
  • modulare umore e comportamento dell’ospite (Gut-Brain Axis).

Basterebbe già solo questo per farci comprendere l’importanza del microbiota intestinale ma c’è ancora un’altra cosa: i batteri residenti nell’intestino sono capaci di aumentare la nostra capacità adattativa alle variazioni ambientali. Non è cosa da poco se è vero che, come diceva Charles Darwin, “non è la più forte delle specie che sopravvive, né la più intelligente, ma quella più reattiva ai cambiamenti”.

Disbiosi, malattie e peso corporeo

Con il termine di eubiosi ci riferiamo ad una ben determinata composizione del microbiota intestinale. La letteratura scientifica ha dimostrato che nell’intestino degli adulti sani il Phylum Bacteroidetes corrisponde al 45-55% dei batteri, il Phylum Firmicutes al 40-50%, il Phylum Proteobacteria al 2-5% e il Phylum Actinobacteria all’1% circa. Con il termine di alfa-biodiversità si indica la ricchezza batterica ovvero la diversificazione del consorzio batterico intestinale.

Possiamo dire, senza ombra di dubbio, che un soggetto sano ha un’elevata biodiversità. Il microbiota intestinale deve infatti elaborare, metabolizzare e distribuire sostanze a tutto il corpo e riesce ad assolvere ai suoi numerosi compiti attraverso l’alto numero di geni che possiede. Dunque, l’alta diversificazione batterica garantisce la presenza di un ampio microbioma e di una grande adattabilità e di conseguenza ci rende sani.

Al contrario, una scarsa biodiversità segnala una disbiosi quali-quantitativa ed esprime la possibile predisposizione verso:

  • Atopia (allergia, asma, dermatite atopica);
  • Malattie Infiammatorie Croniche Intestinale (MICI, Retticolite Ulcerosa, Morbo di Crohn);
  • Malattie del metabolismo (obesità, diabete, sindrome plurimetabolica);
  • Patologie autoimmuni;
  • Carcinoma del colon-retto.

Perdiamo batteri intestinali ogni volta che riduciamo la variabilità del cibo che mangiamo, oppure quando siamo esposti a forti stress, quando non rispettiamo i fisiologici ritmi circadiani, quando scegliamo per noi la tipica dieta occidentale (Western Diet) caratterizzata dal consumo prevalente di zuccheri semplici e di grassi saturi, quando facciamo uso di farmaci, quando ci isoliamo dagli altri. Perdere batteri, secondo quanto detto, significa perdere informazioni genetiche. A volte le perdiamo definitivamente. I batteri meno rappresentati nell’ambito del consorzio microbico (quelli appartenenti ai Phyla Fusobacteria, Proteobacteria, Tenericutes, Verrucomicrobia e Actinobacteria) sono i più vulnerabili all’azione ripetuta degli antibiotici e degli altri fattori di disturbo. Una volta estinti non c’è modo di reintrodurli.

Non è certo un caso se i centenari e tutti coloro che vanno incontro ad un invecchiamento di successo (successful aging) possiedono un microbiota intestinale molto biodiverso.

A questo punto la domanda sorge spontanea: è possibile che l’impoverimento del consorzio microbico possa avere qualcosa a che fare anche con il nostro peso corporeo? Recentemente alcuni autori hanno dimostrato la correlazione tra la variabilità delle popolazioni microbiche e la possibilità di andare incontro ad una perdita del peso corporeo a seguito di una dieta a basso contenuto di carboidrati o a basso contenuto di grassi (low-carbohydrate and low-fat diets). La variabilità del consorzio microbico viene indicata dagli autori come gut microbiota plasticity. Il concetto di plasticità richiama alla mente quello di adattabilità. L’ipotesi di partenza era che le differenze strutturali nella composizione del microbiota intestinale potessero spiegare la variabilità di risposta, in termini di perdita di peso corporeo, ad una dieta a ridotto apporto calorico. Sono state utilizzate due coorti di adulti obesi arruolati nell’ambito dello studio DIETFITS (Diet Intervention Examining The Factors Interacting with Treatments Success). Si è dimostrato così che la plasticità del microbiota intestinale, diretta conseguenza della variabilità delle popolazioni microbiche, era correlata con una maggiore perdita di peso nel lungo periodo (12 mesi di osservazione) sia nel caso della low-carbohydrate diet sia nel caso della low-fat diet.

Sembrerebbe proprio che se vogliamo aumentare le nostre chance di tornare o di rimanere nel peso forma non possiamo trascurare lo stato di salute dell’organo microbiota.

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