Negli ultimi anni il microbiota intestinale è diventato il protagonista di numerose ricerche. Molti degli studi condotti in questo ambito documentano una forte correlazione tra l’assetto del consorzio microbico e la tendenza ad aumentare di peso.
La curiosa storia del beccafico
Le ipotesi meccanicistiche volte a spiegare la relazione tra microbiota intestinale e peso corporeo nascono dall’osservazione di alcuni fenomeni naturali. La storia del beccafico, ad esempio, è molto interessante. Con il sopraggiungere dell’inverso il beccafico migra dall’Europa all’Africa sub-sahariana ma ogni anno, prima di intraprendere questo viaggio, il beccafico cambia la sua alimentazione e aumenta sensibilmente di peso passando da 17 a 37 grammi. La ragione di questo cambiamento così repentino è facile da intuire: il grasso rappresenta una riserva di energie indispensabili per affrontare le fatiche di un lungo volo. Gli scienziati hanno studiato a fondo il fenomeno e hanno compreso, monitorando le calorie in entrata e quelle perse con gli escrementi, che l’aumento di peso non poteva spiegarsi soltanto con l’iperfagia (tendenza a mangiare al di sopra del fabbisogno energetico). Durante la loro migrazione attraverso il Mar Mediterraneo e il deserto del Sahara le scorte di grasso del beccafico diminuiscono fino a raggiungere di nuovo il peso di partenza.
Si è osservato quello che accade agli uccelli che vivono in gabbia e che non devono affrontare nessun viaggio. La cosa curiosa è che anche in questo caso si registra un aumento del peso corporeo durante il periodo che in natura anticipa la migrazione, e questo anche a parità di dieta. Nella fase successiva si assiste ad una spontanea perdita di peso, di entità pari a quella che si realizza negli uccelli al termine del viaggio migratorio. Viene quasi da pensare che possa esistere un programma interno che regoli il comportamento alimentare e la risposta dell’organismo, una sorta di orologio biologico che fa scattare l’aumento del peso e la sua successiva perdita.
Perdita di peso e bilanciamento energetico
La scienza della nutrizione si fonda sul concetto del bilanciamento energetico.
Sosteniamo da tempo che vogliamo dimagrire l’unica cosa da fare è indurre un deficit energetico. Detto in altri termini bisogna mangiare meno di quello che si consuma. Non ci sono altre strategie al di fuori di questa.
Il trasferimento di energia dall’organismo all’ambiente viene definito spesa energetica mentre il processo inverso viene detto introito energetico. La spesa energetica totale giornaliera consiste di quattro componenti:
- Il tasso metabolico durante il sonno (ebbene sì, consumiamo energia anche mentre dormiamo);
- Il costo energetico legato alla veglia;
- l’effetto termico degli alimenti o spesa energetica dieto-indotta (mangiando consumiamo energia);
- ed infine il costo energetico dell’attività fisica (è proprio il caso di dire sit less, get active).
Il tasso metabolico durante il sonno più il costo energetico legato alla veglia rappresentano assieme la spesa energetica per il mantenimento o tasso metabolico basale o metabolismo basale.
Il metabolismo basale (BMR, Basal Metabolic Rate) rappresenta per definizione il minimo dispendio energetico misurabile mentre il soggetto è in stato di veglia. Lo si può rilevare attraverso la calorimetria indiretta con il soggetto disteso su un lettino a breve distanza dal risveglio e quindi in condizioni di completo riposo fisico e psico-sensoriale, in stato termo-neutrale (non deve avere né caldo né freddo), a 12-14 ore dopo l’assunzione dell’ultimo pasto.
L’effetto termico legato agli alimenti viene detto anche termogenesi dieto-indotta (DIT, Diet Induced Thermogenesis) ed è definito come l’aumento della spesa energetica basale in risposta all’assunzione di un pasto. In un individuo medio che abbia un’alimentazione normale la DIT corrisponde al 10% del dispendio energetico totale giornaliero. La teoria più recente sostiene che la DIT è formata da due componenti: una DIT obbligatoria e l’altra facoltativa. La prima è da mettere in relazione con la spesa energetica che l’organismo compie per digerire, assorbire, trasportare e assimilare i nutrienti ingeriti. La DIT facoltativa (30-40% della DIT totale) sarebbe invece dovuta alla stimolazione del Sistema Nervoso Simpatico a seguito dell’assunzione dei carboidrati.
La spesa energetica necessaria per compiere qualunque tipo di attività fisica è la WIT (Work Induced Thermogenesis) Tipo, durata ed intensità del lavoro eseguito ne definiscono l’entità. In un individuo sedentario la WIT rappresenta il 20-30% del dispendio energetico totale giornaliero. Nello sportivo questa voce raggiunge il 50% ed oltre.
Se dunque l’obiettivo è quello di perdere peso e l’attività fisica rimane moderata la strategia giusta consiste nell’impostare un piano alimentare che apporti tante calorie quant’è il nostro metabolismo basale. Nell’individuo sedentario il metabolismo basale rende conto del 50-60% del dispendio energetico totale giornaliero. Il restante 50-40% potrà essere coperto andando a pescare energie dal grasso di deposito ed è così che si dimagrisce. Quando si segue un simile approccio la perdita di peso varia da mezzo chilo ad un chilo a settimana.
Si possono mettere in dubbio queste conoscenze? Sicuramente no ma l’esperienza del beccafico racconta un’altra verità. È possibile che questa verità, più complessa, valga anche per noi esseri umani? Sosteniamo da tempo che l’epidemia di obesità a cui stiamo assistendo sia causata dall’eccessivo introito calorico a fronte di un’aumentata sedentarietà. In realtà gli studi epidemiologici condotti sull’uomo dimostrano che al giorno d’oggi mangiamo meno di quanto facevamo decenni fa mentre la quantità di movimento più o meno si equipara.
Abbiamo compreso tutto della scienza della perdita del peso?
Mi ricordo di una paziente incontrata quando facevo il mio tirocinio in cardiologia. Era una signora anziana, simpaticissima, molto schietta. Una delle cose che i cardiologi dicono sempre ai loro pazienti è “bisogna dimagrire”. Sulla prescrizione, accanto ai farmaci, scriveranno “si consiglia una dieta ipocalorica, iposodica, ipolipidica”. Così accadde anche quella volta perché la signora, ipertesa, era affetta anche da una forma di obesità.
Ricordo che la paziente non si è lasciata intimidire dal cardiologo, un validissimo collega, e ha risposto più o meno così: “A me mi sa che voi di come si fanno dimagrire le persone non c’avete capito ancora niente”.
La frase di quella signora mi torna in mente ogni volta che affronto un “caso difficile”… c’è da dire che più il caso è difficile e più io mi ostino e, se anche il paziente è ostinato come me, una via la troviamo. I casi difficili mi fanno pensare al bel Ted-Talk di Peter Attia (vedi qui). La prima volta che l’ho ascoltato mi sono commossa. Attia è presidente e cofondatore di Nutrition Science Initiative e porta avanti un’idea: sostiene che non sappiamo abbastanza sulla scienza dell’aumento di peso e che i medici (prima loro e poi la società intera) dovrebbero smettere di incolpare le vittime.
L’obesità ha notoriamente un’eziologia multifattoriale e tra i possibili fattori causali vi potrebbe essere anche un virus. L’Adenovirus 36 causa obesità negli animali domestici ed è stato possibile verificare che nel sangue dei pazienti obesi vi sono tracce di un’infezione pregressa da questo virus (i cosiddetti anticorpi neutralizzanti).
Si è cercato di trovare la relazione meccanicistica tra infezione da Adenovirus 36 e obesità.
Non è noto se l’obesità sia causata da un’infezione persistente da Adv36 o da un effetto mordi-e-fuggi del virus sul metabolismo dell’ospite che verrebbe settato in modalità “accumulo di grasso”. Studi effettuati in laboratorio su colture cellulari hanno dimostrato che l’Adv36 ha una predilezione particolare per gli adipociti naive (immaturi). Una volta attaccate dal virus queste cellule mostrano un’accelerazione del loro processo di maturazione e aumentano rapidamente di numero (differenziazione in adipociti maturi, iperplasia, ipertrofia). Questo potrebbe essere il meccanismo alla base dell’obesità infettiva.
La proteina E4orf1 gioca un ruolo chiave perché attraverso l’up-regolazione della fosfatidilinositolo-3-chinasi porta ad un’aumentata espressione di GLUT-1 e GLUT-4 (i recettori per il glucosio) sulla membrana cellulare. Dal momento che l’espressione di questi recettori avviene in maniera indipendente dall’insulina l’azione del virus potrebbe spiegare anche il paradosso della healthy obesity, ovvero dell’obesità non associata a sindrome plurimetabolica.
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