La patata, il cui nome è Solanum tuberosum, fa parte della famiglia delle Solanacee, la stessa a cui appartengono pomodori e melanzane. Originaria dell’America Centrale si diffuse in Europa solo nel 1580 dopo la conquista del Perù. Da allora sono state selezionate diverse varietà (circa un centinaio) ognuna con una forma e un colore caratteristici e con peculiari qualità organolettiche. Il consumatore medio è in grado di distinguerle sulla base dell’uso consigliato: “patate da forno”, “patate da friggere”, “patate per tutti gli usi”.
Ricca di sali minerali (Potassio, Calcio e Fosforo) e di vitamine (B1, B2, PP e C), la patata fornisce circa 83 kcal per 100 g di prodotto. Alla base di molte preparazioni culinarie, è uno degli ortaggi più graditi da grandi e piccini. Ma forse non tutti sanno che il consumo di patate è legato ad un rischio potenziale, vale a dire l’avvelenamento da solanina.
Nel 1979 due Autori, McMillan e Thompson, descrissero in un dettagliato articolo [1] pubblicato sulla rivista Quarterly Journal of Medicine quanto accaduto a 78 scolari a Sud di Londra. A mensa quel giorno erano state servite patate lesse. Dopo 14 ore dal pasto i ragazzi cominciarono a manifestare i primi sintomi: vomito e diarrea preceduti o accompagnati da violenti dolori addominali. Nei casi più severi subentrava uno stato comatoso e venivano descritti episodi convulsivi. Fortunatamente nessuno dei ragazzi colpiti andò incontro a morte anche se lo stato confusionale e allucinatorio durò diversi giorni.
Gli Autori sottolineando l’importanza di una diagnosi precoce arrivarono a sostenere che alcuni degli episodi interpretati genericamente come “gastroenteriti” potessero in realtà derivare da un leggero avvelenamento da solanina.
La solanina è un alcaloide glicosidico presente in diverse piante appartenenti alla famiglia delle Solanacee. Foglie, frutti e radici ne contengono quantità variabili per difendersi dall’attacco di funghi e di insetti. Nelle patate coltivate la solanina è presente in basse dosi (meno di 10 mg per 100 mg) ed è concentrata soprattutto nella buccia [2]. Poiché tale sostanza viene degradata solo per esposizione a temperature superiori ai 243 °C [3] è importante pelare le patate prima della cottura. Di fatti la percentuale di solanina nelle patate bollite in acqua con la buccia è risultata 170 volte maggiore della percentuale rilevata nelle patate cotte senza buccia in pentola a pressione. Va evitato poi il consumo di patate verdi. Le patate divengono verdi per esposizione alla luce e al freddo e in queste condizioni arrivano a contenere fino a 100 mg di solanina per 100 g di prodotto.
Secondo quanto disposto dalla FDA (Food and Drug Administration) il contenuto massimo accettabile di solanina è di 25 mg per 100 g di prodotto [4]. La dose considerata mortale per l’uomo è di 3-6 mg/kg di peso corporeo. Così un uomo del peso di 80 kg può rischiare la morte mangiando da 3 a 5 patate medio-grosse che si siano “rinverdite” perché mal conservate!
Ovviamente se le patate sono ben cotte e ben conservate non corriamo alcun rischio nel mangiarle: dovremmo consumarne una quantità improbabile per poter accumulare livelli mortali di solanina.
Ma ragionando sul fatto che questo alcaloide rappresenta un sistema di difesa della pianta di fronte alle avversità ambientali, ci dovremmo attendere concentrazioni pericolose di solanina:
- nelle patate raccolte immature (vedi patate novelle);
- nelle patate che presentano una colorazione verde per effetto dell’esposizione alla luce solare o al freddo (attenti alle modalità di conservazione);
- nelle patate germogliate;
- in quelle surmature, cioè raggrinzite e appassite;
- nelle patate danneggiate dai fitofagi o aggredite dalle muffe.
In sostanza dovremmo mangiare solo patate raccolte a completa maturazione da non più di 5 mesi e conservate al fresco e al buio.
Lascia un commento