L’incidenza di sovrappeso e obesità è in continua crescita. L’aumento ponderale oltre i limiti fisiologici è senza dubbio la conseguenza del mangiare troppo e della sedentarietà. Certo è che a parità di eccesso calorico e di livelli di sedentarietà vi sono persone che ingrassano con più facilità di altre. I motivi di questa disparità di reazione possono essere ricercati in vari ambiti ma l’evidenza scientifica dimostra che la composizione del nostro consorzio microbico intestinale gioca un ruolo chiave. Il fenomeno prende il nome di Energy Harvest e riguarda l’efficacia con la quale siamo in grado di ricavare energia dal cibo grazie al contributo dei nostri batteri intestinali.
Le cose stanno più o meno così. Il grosso dei batteri residenti a livello del colon appartiene a due grandi Phylum, quello dei Firmicutes e quello dei Bacteroidetes. I membri di un Phylum più quelli dell’altro rappresentano oltre il 95% dei batteri che popolano l’ultimo tratto del nostro intestino. È qui che giungono, indigerite, le fibre alimentari. Queste servono da nutriente per i batteri colonici i quali sono forniti degli enzimi giusti per produrre, a partire dalle fibre, gas e acidi grassi a corta catena (Short Chain Fatty Acids, SCFAs). Ora mentre i Firmicutes producono acido butirrico, i Bacteroidetes producono acido propionico. Acido butirrico e acido propionico sono i due principali SCFAs. Il primo viene captato dalle cellule che rivestono il colon (i colonociti) ed usato da queste come fonte di energia. Il grosso intestino è troppo esteso per poter soddisfare il proprio fabbisogno energetico per mezzo dei soli nutrienti che gli derivano dalla circolazione ematica. Per questo i colonociti si sono adattati a pescare direttamente dal lume intestinale. Al contrario dell’acido butirrico, l’acido propionico permea il colonocita e attraverso la circolazione entero-portale giunge al fegato dove viene impiegato ai fini della neoglucogenesi (sintesi di nuovo glucosio).
Ora, immaginiamo di avere una sovraccrescita di Firmicutes e immaginiamo di seguire un’alimentazione basata sul consumo prevalente di alimenti vegetali (il che si traduce inevitabilmente in un bel sovraccarico di fibre). Tanti Firmicutes e tante fibre significano tanta produzione di acido butirrico. In condizioni normali il colonocita soddisfa il proprio fabbisogno energetico per il 70% attraverso l’acido butirrico e per il restante 30% captando i nutrienti dal sangue. Ma se c’è un eccesso di acido butirrico di quel 30% di energia non ci sarà più bisogno. Succede così che l’energia *risparmiata* viene convertita in grasso di deposito. Alla fine il paradosso è che in queste condizioni si ingrassa anche mangiando l’insalata!
A quelli che presentano un eccesso di Bacteroidetes non va poi tanto meglio: una neoglucogenesi persistente porta ad insulino-resistenza e l’insulino-resistenza, nel lungo periodo, porta a diabete mellito di tipo 2.
Le cose vanno bene, invece, se il rapporto Firmicutes/Bacteroidetes è compreso tra 0.8 e 1. Questo dice l’evidenza scientifica. Se poi nel colon alberghiamo una buona quota di Akkermansia muciniphila le cose vanno ancora meglio. Questo batterio è stato isolato da Willen de Vos e Muriel Derrien nel 2004 e gli studi metagenomici hanno dimostrato che la supplementazione prebiotica è associata ad un suo aumento di circa 100 volte. Vedremo a breve perché è così importante ospitare una buona quota di Akkermansia nel nostro intestino.
A luglio di quest’anno Patrice Cani ed il suo gruppo di ricerca hanno pubblicato (sulla prestigiosa rivista Nature) un articolo dal titolo *Supplementation with Akkermansia muciniphila in overweight and obese human volunteers: a proof-of-concept exploratory study*. Si tratta del primo studio sull’Akkermansia condotto sugli uomini (fin qui la sperimentazione era stata eseguita su modelli murini). Ricordo ancora l’appello di Patrice Cani nella fase in cui andava cercando i volontari da reclutare per il suo studio. Quello riportato qui di seguito è l’abstract di questo importante lavoro:
La sindrome metabolica è caratterizzata da una costellazione di comorbidità che portano ad un aumentato rischio di sviluppare patologie cardiovascolari e diabete mellito di tipo 2. Il microbiota intestinale è il nuovo fattore chiave coinvolto nell’insorgenza dei disturbi legati all’obesità. Nell’uomo, gli studi hanno dimostrato che esiste una correlazione negativa tra abbondanza di Akkermansia muciniphila e sovrappeso, obesità, diabete mellito di tipo 2 non trattato o ipertensione. Poiché la somministrazione di A. muciniphila non è mai stata studiata nell’uomo, abbiamo condotto uno studio pilota randomizzato, in doppio cieco, controllato con placebo, su volontari sovrappeso/obesi insulino-resistenti. Ne sono stati reclutati 40 e 32 hanno completato lo studio. Gli endpoint primari erano la sicurezza, la tollerabilità e il monitoraggio dei parametri metabolici (ovvero resistenza all’insulina, lipidi circolanti, adiposità viscerale e massa corporea). Gli endpoint secondari erano l’effetto sulla barriera intestinale (valutata andando a dosare l’LPS ematico) e la composizione del microbiota. Alla fine abbiamo dimostrato che l’integrazione orale giornaliera di 10 alla 10 batteri A. muciniphila vivi o pastorizzati per tre mesi era sicura e ben tollerata. Rispetto al placebo, A. muciniphila pastorizzata ha migliorato la sensibilità all’insulina (+28,62 ± 7,02%, P = 0,002) e ha ridotto l’insulinemia (−34,08 ± 7,12%, P = 0,006) e il colesterolo totale (−8,68 ± 2,38%, P = 0.02). L’integrazione di A. muciniphila pastorizzata ha leggermente ridotto il peso corporeo (−2,27 ± 0,92 kg, P = 0,091) rispetto al gruppo placebo e la massa grassa (−1,37 ± 0,82 kg, P = 0,092) e la circonferenza dell’anca (−2,63 ± 1,14 cm, P = 0,091) rispetto ai valori basali. Dopo tre mesi di integrazione, si è avuta una riduzione dei marcatori ematici che indicano disfunzione epatica e infiammazione mentre la struttura generale del microbioma intestinale non è stata influenzata. In conclusione, questo studio dimostra che l’intervento è stato sicuro e ben tollerato e che l’integrazione con A. muciniphila è in grado di migliorare diversi parametri metabolici.
I più attenti avranno notato che nell’abstract si parla di Akkermansia pastorizzata. La pastorizzazione come tutti sanno uccide i batteri. Come fa allora un batterio morto ad essere così benefico per la nostra salute? Per rispondere a questa domanda ci viene in soccorso un altro eminente scienziato:
Abbiamo dimostrato che Amuc_1100, una proteina specifica isolata dalla membrana esterna di A. muciniphila, interagisce con il recettore Toll-like 2, è stabile alle temperature utilizzate per la pastorizzazione, migliora la barriera intestinale e ricapitola in parte gli effetti benefici del batterio.
Queste sono le conclusioni di un recente lavoro dal titolo *A purified membrane protein from Akkermansia muciniphila or the pasteurized bacterium improves metabolism in obese and diabetic mice* pubblicato dal gruppo di WM de Vos, ancora una volta sulla rivista Nature (è spesso lì che vanno a finire gli articoli migliori).
Dunque l’Akkermansia, viva o morta, ci fa bene perché i suoi effetti anti-infiammatori e di stabilizzazione della barriera intestinale sono in gran parte dovuti alla proteina fimbriacea Amuc_1100. Ed è per questo che un’azienda farmaceutica metterà presto in commercio un integratore a base di Amuc_1100 (la sperimentazione è già in fase avanzata).
Ma se volessimo far crescere la nostra popolazione di Akkermansie già presenti nel nostro intestino? Abbiamo qualche possibilità?
L’Akkermansia è favorita da una dieta ricca in polifenoli (gli antiossidanti colorati presenti nella frutta, specialmente quella selvatica), dal digiuno intermittente (come dice il nome della specie – muciniphila – l’Akkermansia si nutre del muco che riveste la parete intestinale e la sua crescita è favorita dal digiuno perché durante il digiuno gli altri batteri tendono a rallentare la loro crescita), dalla metformina (farmaco ad azione insulino-sensibilizzante prescritto nelle prime fasi di un diabete alimentare) ed infine da alcuni fitoterapici tra i quali la berberina.
La berberina, un alcaloide isochinolinico quaternario presente nella Berberis aristata, mostra effetti ipocolesterolemizzanti (aumentata espressione del recettore per le LDL), ipoglicemizzanti e insulino-sensibilizzanti. La scoperta della capacità della berberina di ridurre i livelli di zucchero nel sangue avvenne casualmente nel corso di un trattamento di pazienti diabetici affetti da diarrea ad eziologia infettiva (serendipity). MI capita di prescrivere integratori a base di berberina allo scopo di tenere a bada gli zuccheri e i grassi a livello ematico.
Da un punto di vista meccanicistico l’effetto ipoglicemizzante della berberina appare legato a diversi fattori quali l’aumento dell’espressione dei recettori GLUT-1, GLUT-4 e, a livello mitocondriale, l’incremento dell’attività di AMPK a sua volta capace di determinare un aumento della glicolisi, dell’uptake e del consumo di glucosio.
A livello intestinale la berberina esercita un’azione acarbose-like di riduzione dell’attività α-glucosidasica con riduzione dell’assorbimento del glucosio. Questo dato giustificherebbe tra l’altro l’osservazione clinica secondo cui il principio attivo sarebbe particolarmente efficace sulla glicemia post-prandiale. Sulla base di queste evidenze si è soliti definire la berberina come anti-iperglicemico insulino-sensibilizzante.
L’evidenza scientifica dimostra, infine, che al pari della metformina la berberina è in grado di condizionare la composizione del microbiota intestinale portando ad una maggiore espressione del batterio Akkermansia muciniphila. E con questo giungo alle mie conclusioni.
L’esecuzione di un test del microbiota intestinale mi da informazioni sul rapporto Firmicutes/Bacteroidetes e sulla abbondanza relativa di Akkermansia. Nel nostro intestino potrebbe non esserci traccia di Akkermansia. Nel caso invece in cui il batterio fosse presente la sua numerosità potrebbe essere francamente ridotta rispetto a quella intesa come normale. Se l’Akkermansia non c’è allora potremmo giovarci dell’assunzione di Amuc-1100. Se ce n’è poca possiamo invece provare con una dieta ricca di polifenoli, con il digiuno intermittente e con la berberina.
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